Quasi terminata la caccia ai regali rituali delle feste collettive, entriamo nella preoccupazione dell’incontro annuale con parenti o amici e sulla preparazione dei pranzi comuni. Le festività scandite nell’anno, colonizzate da religioni e credenze collettive, devono esprimere abbondanza, gioia e, soprattutto, fraternità.
La condivisione di cibo e doni unisce famiglie, società, razze; quando tutto questo diventa un ruolo faticoso per alcuni e un obbligo non scelto per altri, noia e frustrazione allagano il campo, intorbidendo un’occasione di unione spirituale.
Il clima del “come se” invade l’ambiente umano come un’epidemia, travolgendo i più deboli, bambini, anziani o semplicemente i “buoni”.
Il “grazie” annega nelle mode, sul cibo, sui regali, sul tempo libero. La plastica, con i suoi colori sgargianti, avvolge i nostri momenti importanti, creando oblio sull’essenza dell’essere, strani sentimenti ci possiedono all’improvviso, paura e sospetto di chi è gentile con noi, come l’animale selvatico che morde la mano che gli offre il cibo.
La gentilezza diventa un’invasione di campo, il regalo ci imbarazza e tendiamo a sorrisi stereotipati come bambini ben educati. All’inizio i bambini rifiutano un regalo non azzeccato ma in seguito imparano a ringraziare.
Se il dono è una parte di me stesso che regalo con gioia, non è solo l’oggetto materiale, ma cosa e come lo offro: fare i tortellini per tutti, preparare zuppa e abiti per chi è senza, cambiare un clima triste con umorismo e volontà di bene per altri, riempie tutti i nostri vasi comunicanti che sono le personalità e tutte le intelligenze che ci abitano.
Il segreto del “dare” è il medesimo del “ricevere”.
La mia esperienza con i regali è sempre stata ambivalente, generalmente li riciclo tutti, con grande gioia di chi mi circonda tranne alcuni preziosi perché arrivano da compagni d’anima.
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